Questo che sto scrivendo è il post numero 100 del mio Blog. Rivedo l’elenco e scopro che il primo “Hai letto "Forse è davvero così"? Lascia un commento…” l’ho modificato come data: invece di essere nel 2006 risulta pubblicato il 9 novembre del 2008. Dall’inizio sono passati 10 anni: 100 post non è un gran numero, evidentemente fin dall’inizio avevo già sposato la prassi del “Pole Pole” (che potrebbe essere un altro modo per definire, l’ozio creativo proposto dal Prof. De Masi di cui sono un indegno seguace).
Dopo questa premessa falsamente ingenua, fatta in realtà con lo scopo che qualcuno dei miei nuovi lettori vada a vedere cosa ho pubblicato negli anni, entro nella seconda parte della vacanza di fine 2016 che ha un nome preciso: Bagamoyo (spero di riuscire a scrivere qui sotto la veranda della Nyumba Ali seduto allo stesso tavolo con Mage e Viky . Quest’ultima fa dondolare tutto mentre insieme a Bruce Springsteen rendiamo omaggio a Pete Seeger. Il tavolo di legno potrebbe crollare trascinando a terra il PC e noi che cantiamo (!?) “Pay me my money down”).
Bagamoyo per qualche tempo ha conteso a Dar il ruolo di porto più importante della Tanzania. Il giorno trascorso lì mi ha fornito diversi spunti di riflessione: ne condivido alcuni senza la pretesa di addentrarmi in analisi complesse di cui non sono capace e che non si addicono all’idea di “note e noticine”, che sono poco più che spunti, appunti o, al massimo, contrappunti.
Bagamoyo doveva il suo suo successo al mercato degli schiavi: provvedeva al primo smistamento delle persone raccolte nell’entroterra inviandole a Zanzibar dove si procedeva alla spedizione definitiva verso i mercati orientali ed asiatici o verso il Sudafrica. Era il fronte orientale del commercio di uomini e merci: con gli schiavi partivano avorio, oro, e minerali e tornavano seta, spezie e altro, come si vede in questa immagine presa nel museo di Bagamoyo.
Gli arabi gestivano il traffico sfruttando collaboratori locali che, con l’inganno, avvicinavano le persone: i principali acquirenti erano mediorientali, inglesi (soprattutto nelle colonie), indiani e persino cinesi.
I più pregiati erano i bambini: un bambino schiavo che arrivasse in una famiglia inglese in India o in Sudafrica avrebbe potuto garantire diverse decine di anni di “onorato servizio”. Per questo i bambini, oltre ad essere incatenati, si portavano dietro un grande pezzo di legno che ne impediva la fuga.
D’ora in poi non penserò più solo alle piantagioni di cotone del Mississippi come luogo della schiavitù antica (per quella moderna non ho che l’imbarazzo della scelta).
I Missionari cattolici francesi arrivarono a Bagamoyo attorno al 1860 e cominciarono quasi subito a comprare gli schiavi riscattandoli e restituendo loro la libertà. Per ogni schiavo libero è stato piantato un albero di palme che oggi forma un vero e proprio bosco che accoglie le persone che si avvicinano alla chiesa.
Non ho gli strumenti per scavare in profondità: l’uomo è capace, allora come oggi, di crudeltà che è difficile persino immaginare. So per certo, però, che c’è anche tanta brava gente che non fa notizia e vedere quello che era il mercato degli schiavi trasformato in un posto dove si possono comprare (ovviamente con la solita contrattazione sul prezzo) prodotti dell’artigianato locale mi ha un po’ rinfrancato, così come scoprire che nel 1896 qui è stata aperta una scuola multirazziale che funziona anche oggi.
Mentre mi chiedevo come potesse essere una scuola multirazziale nel 1896 (e come può esserlo 120 anni dopo, anche in Italia) ci siamo spostati a Kaole una località più a Sud dove si trovano le rovine del primo insediamento di arabi che si sono stabiliti sulle coste della Tanzania nel 13° secolo. Il posto è molto suggestivo: la nostra guida ci racconta di una trentina di persone (uomini e donne) partiti dal sud della Persia che, costeggiando l’Africa, si sono poi stabiliti proprio lì (chi fa queste cose come lo chiamiamo oggi?). Sono passati poi quasi duecento anni prima che entrassero davvero in contatto con la popolazione locale: gli orientali erano molto più evoluti, costruivano case in pietra, usavano il fuoco, avevano una religione (musulmani praticanti: le rovine della moschea sono ancora un luogo sacro e ci si entra scalzi); i tanzaniani stavano nella foresta ad un livello primitivo.
Questo mi suggerisce alcuni spunti per l’attualità:
- non sempre chi arriva dal mare (anche se scappa da qualche altra parte) porta disgrazie,
- non sempre i musulmani hanno la spinta per convertire i vicini (l’islamizzazione della Tanzania non è partita da qui nel 13° secolo…)
- non sempre è necessario avere fretta per “integrarsi” , a volte serve una fase di studio.
Sono un inguaribile idealista: mi piace immaginare Kaole come il villaggio del “Libro della giungla” (quello vecchio della Disney): una ragazza esce a prendere acqua al fiume e incontra il selvaggio appena sceso dall’albero...
6 commenti:
Note e noticine ma di un peso incredibile! Stasera rifletto...sempre grazie.
...manca il finale dal gelataio di Andrea... Me lo sono perso? Ciao
"I have a Dream". Chi parla di sogni non può che essere idealista. Avere una visione può anche portare ad essere considerato un visionario. Un caro saluto.
@toto Non hai perso niente...il finale sarà, appunto, verso la fine. Ti abbraccio!
Ci sono due persone di cui leggo volentieri i commenti uno attuale, l´altro passato e guarda caso per entrambi il collegamento è l´africa ..... cosa vorrà dire? Che l´africa che a me sembra tanto lontana mi è più vicina di quanto creda .... a presto. La tua x lettrice!
Ci sono due persone di cui leggo volentieri i commenti uno attuale, l´altro passato e guarda caso per entrambi il collegamento è l´africa ..... cosa vorrà dire? Che l´africa che a me sembra tanto lontana mi è più vicina di quanto creda .... a presto. La tua x lettrice!
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