31 gennaio 2017

ULTIMA NOTA: COINCIDENZE E SCALO. L’UNICA CERTEZZA È LA FRAGILITÀ.

Sul volo Istanbul - Bologna (la coincidenza che ci aspettava ad uno scalo) il primo contatto con l'Italia è stato un piacevole viaggio con una bella persona di Bologna: due ore di scambi di opinioni e racconti con un mio coetaneo in viaggio di lavoro.
Ho avuto la conferma che è ancora possibile, da sconosciuti, sperimentare la sintonia e la voglia di condividere idee ed esperienze sui nostri mondi. Storie che, partendo dal nostro essere individui, creano sintonia e senso di comunità.
Da noi si dice “attaccare pezza” e, visti da fuori, stavamo reciprocamente facendo proprio questo: le pezze, però, aggiustano, ricompattano e, usate bene, possono anche lenire il dolore.
Il mio ritorno in Italia è stato anche questo fatto non casuale (una coincidenza e uno scalo dove i sentieri si incontrano): la conferma che siamo meglio di come ci rappresentiamo.

La coincidenza permette di sovrapporre superfici identiche: l’impronta del corpo steso sulla sabbia, la mano appoggiata su un’altra che è bianca sotto e nera sopra, lo scambio di indumenti con qualcuno che li può indossare (un figlio con la testa chiara come il giorno in cui è nato)
Fare scalo, fare le scale: non quelle fra un piano e l’altro di un palazzo ma quelle che si snodano sul pianoforte creando automatismi e velocità senza intoppi o intrecci impropri di dita.
Con la chitarra non ho mai fatto le scale: strimpello accordi grattugiando le corde con plettri sempre troppo duri.
Col piano, invece, ho vissuto anche una breve stagione di scale per migliorare la tecnica e la padronanza dello strumento.

Scali e scale sono la sintesi delle coincidenze di questo viaggio: una sintesi “a freddo” nell’azzurro cielo sottozero dell’inizio 2017 della bassa padana.
Si può salire e scendere, cambiare compagni di strada, interrompersi, ridisegnare la vita in un singolo istante, ripartire, non ritrovarsi più.
Le coincidenze che mi vogliono vivo e sano nonostante infiniti incroci sono le stesse che mi mettono di fronte all’idea di quanta gente non potrò più incontrare fisicamente.
Il viaggio non è mai solo quello fisico e c’è il dramma sempre dietro l’angolo: l’unica certezza con cui facciamo i conti è la nostra fragilità.
Non generalizzo, parlo di me che giro con un’agenda piena di nomi e numeri e con un album di fotografie sullo smartphone: le devo mostrare per confermare la realtà delle esperienze. Le riguardo e mi soffermo a pensare quanto vorrei condividerle davvero, in profondità, partendo dai tanti che ora non regalano più il loro sorriso.
Le dita sul piano si intrigano: è il segno che le scale non fanno per me.
Più opportuno uno scalo “allo scopo di compiere operazioni di carico e di scarico, di rifornimento, manutenzione” per ripartire ancora.
Le nuove sfide sono già dietro l’angolo. 
Tra Mkwawa che combatteva nemici visibili e Peter che affronta quelli invisibili della tubercolosi e dell’indifferenza c’è una strada anche per me: l’unica certezza con cui faccio i conti è la mia fragilità che ha senso solo condivisa con le tante fragilità di chi, vicino o lontano, cammina insieme a me.
Per questo la  foto di oggi è un arrivederci dal Dala Dala della Nyumba Ali.


25 gennaio 2017

Penultima nota. Il viaggio verso casa: buio, luci, allucinazioni (e Lucio)

L'Aeroporto Internazionale Julius Nyerere di Dar Es Salaam ci accoglie il 13 gennaio verso l'una e trenta completamente al buio. Un piccolo incendio ad un quadro elettrico non spento in tempo (già si parla di secchi al posto degli estintori) ha causato la paralisi di tutto lo scalo.
Per fortuna c'è la luna piena: così, pur nelle tenebre subequatoriali, i bianchi si vedono bene.
In un attimo siamo già un gruppo di una decina di italiani, fra cui alcuni che aspettano da tre giorni in albergo che si sblocchi il tappo di Istanbul (tutto sommato se la sono passata bene in un quattro stelle con piscina in riva al mare). Il nostro volo, previsto per le 4, è strapieno anche per questo.
Ad un certo punto si sparge la voce che il volo della Turkish Airline (il nostro) partirà dal terminal 1 a più di due chilometri di distanza. Taxi al volo pagato senza contrattare (giornata storica per i taxisti di Dar Es Salaam!) e siamo sul posto: un punto periferico dell'aeroporto dove di solito partono i voli interni per isole e parchi.

Ho preso il mio primo aereo nel 2011, quindi non ho idea di come fossero organizzati gli aeroporti in anni più storici: per questo non so se posso fare paragoni con l'esperienza che abbiamo vissuto per cinque ore (dalle 2 alle 7) nell'affollato terminal periferico di Dar.
Biglietti scritti a mano, valigie portate via in mucchi precari su carrelli da cui cadevano nel percorso che solcava la folla. Gente da tutto il mondo assiepata negli angusti spazi in cui arrostiva alla temperatura di 36 gradi.

L’unico momento in cui ho avuto i brividi è stato quando ho visto i nostri bagagli traballare nella discesa verso la pista: mi sono convinto che non li avrei trovati all'arrivo a Bologna. Immaginavo la valigia blu sventrata dall’aereo da turismo in partenza verso il Kilimangiaro: nella mia mente i prodotti artigianali che la riempivano (da vendere nei mercatini per sostenere la Nyumba Ali) svolazzavano spinti dalle eliche in movimento, regalando un tono di colore al grigio asfalto della pista di Dar, irrimediabilmente irrecuperabili.

Nel delirio dell’alba afosa anche le radiografie che mi avevano fatto all’ospedale di Tosamaganga mi sembravano volare in aria e, illuminate dal sole nascente, proiettavano la mia gabbia toracica come un avviso a tutta l’Africa: novella riedizione del Batsegnale che appare su Gotham City.
Ero riuscito a stare in Africa 23 giorni senza essere mai colpito dalla classica “diarrea del viaggiatore” e a poche ore dalla partenza mi ritrovavo affetto da una forma basica di A.D.A. (Allucinazioni Da Aeroporto).

Invece, una volta saliti sull'aereo tutto si è messo a posto: il ritardo è stato assorbito nel tempo dello scalo a Istanbul e la coincidenza verso Bologna era quasi puntuale.
Alla fine siamo arrivati tutti e tutto il nostro bagaglio: Bruna e Lucio - decisamente più in forma di me - ci hanno accolto con giacche a vento per sopportare lo sbalzo dall'estate subtropicale all'inverno padano.

Il racconto del volo di ritorno (nella foto il nostro aereo che ci aspetta mentre lo raggiungiamo a piedi sulla pista di Dar Es Salaam) attira la mia attenzione su due parole: COINCIDENZE E SCALO.

Saranno l’argomento della nota finale che chiuderà il ciclo delle “Note e noticine”. Alla prossima!

12 gennaio 2017

Nota in attesa dell'aereo: suoni e sottofondi

A Dar ci ha accolto una spettacolare luna piena dopo 10 ore di corriera: in attesa dell'imbarco alle 3 di mattina mi guardo indietro e pubblico grazie al WiFi del CEFA.
SUONI.
Alla mattina è normale essere svegliati  dai vari galli che si sentono da più parti e sembrano quasi passarsi dei messaggi o voler competere con Viky che (memore della sua prima vita in cui stava in un cortile insieme agli animali) inizia a lanciare segnali di vita col suo inconfondibile richiamo con cui sembra voglia trapanare il mondo.
In lontananza alcuni cani continuano ad abbaiare fra di loro prolungando la conversazione che li ha tenuti impegnati per gran parte della notte. Anche questi suoni mi fanno riflettere e ricordare che esistono ancora posti al mondo dove i cani vagano liberi o stanno nei cortili e non dormono nelle case e spesso nei letti dei loro  coinquilini umani.
Prima che la luce faccia capolino dietro il mango tra la palestra e il gazebo, un uccello riempie il cortile della Nyumba Ali col suo canto. Ho provato a registrarlo e qualcosa si sente: vedrò cosa riesco a farne. 
Non ricordavo il suo canto: è probabile che questi giorni che preludono alla stagione delle piogge siano quelli in cui è più attivo. Il suo sibilo modulato mi ricorda a grandi linee "La Cucaracha" e così lo chiamo mentre, come un adulto che ha perso la propria immagine sociale, scambio fischi con lui.


Appare Mage col suo sorriso sempre acceso e mi chiama "Kaka Patrizio!" come se fosse la prima volta che mi vede: io, in un rituale consolidato, le rispondo con voce bassa "Apana!" scatenando la sua risata che si conclude col racconto in Swahili a chi le sta vicino, qualcosa tipo "hai sentito che Kaka Patrizio mi ha detto no.." imita la mia voce e continua a ridere e ridiamo insieme.

Da quando le scuole hanno riaperto sulla collina di Wilolesi rimbalza un vociare continuo di bambini. Si direbbe che la scuola sia organizzata in una sorta di ricreazione permanente e anche passando di fianco alle scuole si vedono sempre un sacco di bambini fuori dalle aule a giocare e parlare. 

Non voglio giudicare in base a sensazioni superficiali: un'analisi attenta del sistema scolastico tanzaniano richiede approfondimenti, dati e competenze che non mi appartengono; magari un'altra volta che torno qua provo a capire meglio.
Quello che mi interessa ora è il tappeto sonoro delle voci dei bambini. 
Non farò la scontata riflessione negativa sul fatto che anche questo è un suono ormai raro dalle nostre parti; segnalo, invece, che lo stesso suono si sente da casa mia proveniente dai Parchi Peter Pan e Andrea Bui. Ho la fortuna di vivere in un quartiere dove i bambini, di diverse etnie e colori, ci sono ancora e si fanno sentire. Non so per quanto durerà: adesso lo vedo come un'ulteriore conferma che la casa della mia famiglia ha tanti indirizzi e i principali sono Viale Krasnodar Ferrara e Wilolesi Street Iringa.
I bambini, poi sanno sorridere come nessun'altro: anche quelli, disabili, della Nyumba Ali. Ecco la prova nella foto di oggi.


11 gennaio 2017

Due note insieme prima di partire. Le strade delle multe e dei sapori

Il viaggio di ritorno inizia alle 8,30 del 12 gennaio alla stazione delle corriere di Iringa e, se tutto va come da programma, si conclude alle 17,45 del 13 gennaio all'aeroporto di Bologna. Per fare bene i conti serve ricordare che recupereremo anche due ore di differenza tra fuso orario e ora legale: l'effetto di ciò è che partiremo da Istanbul alle 17 arrivando a Bologna alle 17,45.
Avrò tempo per riflettere e prepararmi allo sbalzo di temperatura da +25 a -1.

Ho un argomento lasciato in sospeso: lo sciolgo subito.
Le multe. Nel viaggio a Dar tra Natale e Capodanno siamo stati fermati in totale 6 volte. Tre volte non c'era un vero motivo e, verificato che in macchina non viaggiavano solo dei bianchi e che tutto sommato non stavamo facendo nulla, ci hanno lasciato andare. Le altre tre volte, invece, il motivo c'era ed era anche documentato. Nella foto che ho pubblicato la poliziotta aveva visto che, per schivare un camion che aveva frenato bruscamente, abbiamo superato la linea continua: c'è poco da discutere e Andrea sta andando al chiosco dei gelati a pagare.
Le altre infrazioni riguardano i limiti di velocità. Lungo la strada appaiono all'improvviso divieti di superare i 50 all'ora e subito dopo poliziotti col velox portatile che scattano la foto e la trasmettono a quelli appostati più avanti che provvedono a fermarti. In quel caso l'unica cosa da fare è verificare se la foto permette di individuare chiaramente la macchina (a volte usano foto fatte male per multare auto a caso) e poi apprestarsi alla trattativa. Infatti, l'ho già detto, le multe, anche se non si discutono, si possono trattare. Ogni multa vale 30.000 scellini (circa 15 euro) e comporta la lunga stesura di un verbale - ricevuta che non sempre è gradito a chi ha fretta: ecco che in automatico scatta la proposta di pagare solo 10.000 scellini che, senza ricevuta, vanno ovviamente spartiti fra i poliziotti stessi.
In linea col codice etico della Nyumba Ali e con le risoluzioni dell'ONU  noi paghiamo la multa intera e, pole pole, aspettiamo il verbale.

Un altro tema su cui riflettere: CIBO INATTESO.
In questi giorni ho potuto gustare dei cibi che non avevo mai assaggiato, per di più in locali tipici. Chapati e chai (tè) a colazione, serviti nei meandri accanto al mercato coperto seduti su una panca mentre le "piade" vengono tirate e cotte sul momento. Attorno qualcuno pulisce pesce o verdure o prepara il fuoco per il pranzo che sarà presto disponibile. Odori, sapori, suoni...
Al Kitimoto (letteralmente "sedia che scotta") scegli uno degli infiniti baracchini tutti uguali sullo stesso spiazzo sterrato.  Ti siedi e ordini carne di maiale a peso che viene tagliata da un mezzo suino appeso alla porta e poi cotto passando da una griglia ad una padella. L'animale "appeso venduto a peso" è servito a piccoli pezzi che si mangiano con le mani insieme a patatine, verdure e accompagnato con una birra locale fresca...pole pole va giù che è un piacere. Entrambi questi posti da noi non potrebbero aprire per questioni igienico-sanitarie, nemmeno in una sagra di quartiere: siamo sicuri di essere noi quelli evoluti?
In altri posti invece del maiale viene proposta la capra oppure l'immancabile pollo, sempre con riso o patate.
Lungo le strade puoi fermarti a prendere un paio di "sambusa" (triangoli di pastella fritta ripieni di carne o di verdura) da completare con un "mandasi" (dolce fritto).
Sull'Oceano il "King Fish" la fa da padrone, da noi non credo che esista: brutto e buono come deve essere un pesce. Nella mia memoria gustativa rimane anche il polipo catturato e cotto sull'isola deserta di fronte a Kipepeo prima di risalire sul catamarano che ci riportava sulla terraferma.
Infine la pizza che Concetta (viene da Avellino) propone a "Mama Iringa" ha rappresentato una piacevole parentesi nella ricerca dei sapori di questa terra.
Confesso, spesso abbiamo mangiato lo stesso menù dei bambini del Centro ma non ci siamo fatti mancare incursioni nei locali insieme alla gente del posto.
Ora tornerò in Italia e non potrò più fare una cena completa con l'equivalente di 5 euro: ma soprattutto mi mancherà il maiale appeso alla porta.

Nota biografica: da un capo all'altro, sempre in ricerca

Erano 4 anni che desideravo vedere il teschio di Mkwawa: il capo degli Hehe (la tribù degli abitanti di Iringa) capace di resistere otto anni agli attacchi delle truppe tedesche sul finire del 19° secolo. 
È un eroe locale, capace di sconfiggere i germanici con l'uso di armi tradizionali nella famosa battaglia di Lugalo nel 1891 e di tenerli in scacco con azioni di guerriglia fino al 19 luglio 1898 quando, ormai braccato nelle foreste attorno a Kalenga, preferì suicidarsi sparandosi in testa ( nel frattempo aveva avuto fucili in regalo da un arabo e se ne era costruito uno con le sue mani). 
I tedeschi gli tagliarono la testa per dimostrare che era morto davvero. Il suo teschio, poi, è entrato nei trattati di Versailles del 1919 ed i tedeschi si sono impegnati a restituire al suo popolo il cranio del capo. 
Così dal 1954 nell'apposito museo di Kalenga (mezz'ora di strada dalla Nyumba Ali) la testa del capo indiscusso degli Hehe fa mostra di sé. 
Un suo nipote è stato portavoce della Camera nel primo parlamento eletto con Nyerere e nel museo si vede una sua foto mentre visita la Fiat a Torino. 
Un altro pronipote (avrà 14 anni) fotografato ai giorni nostri alla scuola internazionale di Iringa è il legittimo successore di Mkwawa. 
Come facciano a individuare gli eredi del mitico capo rimane un mistero, dato che il nostro aveva 63 mogli: la guida del museo illustra con dovizia di dettagli come riuscisse a tenerle tutte controllate attraverso pozioni che faceva mescolare ed assaggiare e, a seconda dell'effetto, risultava chi lo tradiva o no. 
Noi abbiamo sorriso e chiesto alla guida se ci crede e lui ha detto: "adesso no, ma allora funzionava"


Siamo così anche noi: bombardati di stimoli e di informazioni ridondanti a volte ci rifugiamo nella superstizione o nell'investimento acritico in forme irrazionali di risposte a poco prezzo.
La fatica della ricerca della libertà e della verità ci dovrebbe coinvolgere senza scorciatoie. 

Lasciando stare la pancia, che non ci porta da nessuna parte, penso dovremmo collegare testa, cuore e ricerca spirituale facendoli convergere nel punto più profondo che è la straordinaria unicità di ciascuno.
Il buco in cima al teschio di Mkwawa (si vede nella foto?) è lo spiraglio per provare a guardare più spesso in alto, prima, durante e dopo ogni sfida che siamo chiamati ad affrontare.


10 gennaio 2017

Nota impegnativa: da una canzone al rapporto fra mezzi e fini (senza montarsi la testa)

“Ho preso la chitarra” e mi è venuto, qui sotto il portico della Nyumba Ali, di suonare “Quanto vale un uomo” dei Gatti di Vicolo Miracoli. Come al solito non voglio fare pubblicità: chi la conosce sa di cosa parlo, chi non ne ha mai sentito parlare potrà (se vorrà) trovare informazioni sul web.
Con i principi di uguaglianza sono caricate le bombe dei mortai”  mi sembra una frase senza tempo. L’idea è chiara: sui principi non si tratta e non possono, anche se percepiti come buoni, essere contraddetti dagli strumenti usati; producono esattamente il proprio contrario. Lo dice molto meglio la frase “i mezzi rovinano il fine” che sicuramente ha detto qualcuno (se fossi un produttore di bufale la attribuirei a Gandhi o a Papa Francesco).
Siamo nel campo delle opinioni, delle riflessioni personali di un uomo quasi anziano catapultato dalle sponde del Po a quelle del Ruaha con la fortuna di potersi fermare qualche istante a scrivere per rispettare un impegno preso con se stesso e con qualche amica e amico. (Frase vera ma un po’ruffiana, il mio editore me la farebbe cancellare).
La mia sensaziine è che a volte anche dietro gli aiuti ai “paesi in via di sviluppo” si nascondono obiettivi che nulla hanno a che fare con la promozione dell’economia, della cultura, del rispetto della dignità delle persone. Come si fanno guerre con l’alibi di espandere i diritti, altrettanto si fa cooperazione internazionale per scaricare su altri i propri problemi, alla ricerca comunque di una qualche forma di tornaconto. Dallo sfruttamento vero e proprio alla ricerca spasmodica (il più delle volte insoddisfatta) di una auto realizzazione mai trovata a casa propria lo spazio è ampio e la contraddizione nei fatti dei principi sbandierati si può cogliere con diverso spessore di impatto negativo.
In questa parte dell’Africa si sta provando a reagire e la sfida è ora quella rappresentata dallo slogan vincente “Hapa Kazi Tu” (“Qua solo lavoro”) del nuovo presidente Magufuli eletto nell’ottobre 2015.
Per farcela da soli bisogna superare inefficienze e corruzioni: è così che Magufuli si presenta al lavoro puntuale ogni mattina e nei primi giorni ha licenziato centinaia di dipendenti assenti dal posto di lavoro nei vari ministeri, compresi i massimi dirigenti (fra cui il direttore del porto di Dar, probabilmente la più grande infrastruttura di tutta la Tanzania).
Inoltre ha iniziato a controllare gli stranieri presenti nel suo paese verificando i progetti per cui stanno lavorando e l’interesse e il beneficio che la Tanzania ne può ricevere.
Il tentativo è interessante, va seguito per cogliere se si inserisce nel solco dei nazionalismi populisti che sembrano prevalere in varie parti del mondo o se rappresenta un’attualizzazione del sogno di Nyerere che con l’idea dell'Ujamaa  (famiglia, comunità allargata, villaggio, nazione) ha promosso un modello di stato non allineato e pacifico che, fra alti e bassi, ha portato ad una situazione attuale critica ma ricca di opportunità.
Nel prossimo fine settimana il presidente dovrebbe essere a Iringa per inaugurare un nuovo reparto dell’ospedale governativo. Negli stessi giorni arriverà il vescovo di Bologna Matteo Zuppi (preannunciato alla Nyumba Ali il 20 gennaio). Entrambi vengono a riempire il vuoto che lascio io che riparto il 13.
La foto di oggi, scattata al museo di Bagamoyo, ritrae Nyerere in bicicletta, un mezzo che accomuna me e lui: un mezzo (secondo noi due) compatibile con molti dei fini più positivi da perseguire.


9 gennaio 2017

Nota esperienziale: se i guardiani rubano...

Che fare se i guardiani rubano? E cosa serve per fidarsi davvero delle persone? La domanda parte da qua, dopo l’ultimo furto subito in attesa di verificare cosa della refurtiva potrà eventualmente essere recuperato (due PC, due hard disk esterni, una macchina fotografica, qualche soldo fra euro e scellini e la famosa saponetta del WiFi) ma inevitabilmente va oltre gli ampi confini della Tanzania. La compagnia di vigilanza dovrà rimborsare la vittima del furto (cioè noi e la Nyumba Ali) e la polizia dovrà dirci come procedono le indagini e se i due indagati, già a loro disposizione presso la “centrale”, hanno confessato dando anche qualche dritta sul destino della refurtiva.
Quando ieri è entrato nel nostro cortile il camion pieno di ragazzi giovani che hanno perquisito tutta la zona dentro e fuori la casa, non credevo fosse davvero la polizia: erano tutti molto dinamici e senza divisa, in palese contrasto con l’idea che venisse il classico agente in divisa bianca col fisico del sergente Garcia di Zorro. Hanno poi caricato i sospetti sul camion e più tardi hanno ascoltato tutti (compreso Andrea come parte lesa) rassicurando che i loro informatori li avrebbero aggiornati se la merce rubata appariva sul mercato clandestino. Ora abbiamo un numero di fascicolo e potremo chiedere costanti aggiornamenti sul caso.
Sembra quasi di essere in una serie TV con le squadre speciali che indagano (anche qui hanno il database Cyber Crime e se la saponetta verrà accesa la potranno individuare) ma la realtà riporta alla domanda iniziale.
Tolte le considerazioni sulle difficoltà economiche dell’autore e della complice (i due custodi nel cambio fra notturno e diurno attorno alle 7) la questione offre spunti più generali. Perché il custode non dovrebbe rubare in una realtà in cui anche funzionari, politici, poliziotti, gente delle varie chiese se ne approfittano per mettersi in tasca qualcosa? E questo succede solo in Tanzania? (Domanda retorica, come sicuramente avranno colto i miei attenti lettori). In un mondo globale governato da affaristi e miliardari siamo sicuri che il furto sia ancora un reato?
Io dico di si, poi rifletto sul fatto che i nostri custodi subiscono i metodi convincenti della polizia locale, mentre altri riescono a comprare anche la presentabilita nei salotti che contano.
È proprio dal lavoro per la giustizia che bisogna sempre ripartire, ad ogni lato dell’equatore: sento per me la sfida a non generalizzare e non sfuggire dalla realtà costruendo rapporti autentici che investano nella fiducia.
Prendo un foglio e lo divido in due colonne: da una parte elenco tutte le volte che la fiducia è stata tradita e dall’altra quelle in cui ha prodotto un cambiamento positivo… faccio i conti e vedo che la seconda lista è più lunga, di poco, della prima: ce la possiamo fare.
Oggi la foto è proprio una dimostrazione concreta di fiducia: il muro dei nomi della Nyumba Ali. Tutti coloro che hanno offerto qualcosa per sostenere la Nyumba Ali hanno il nome sul muro: proprio oggi abbiamo aggiunto quelli che hanno affidato il loro contributo direttamente a me. Si fidano e sperano che i loro soldi raggiungano i bambini che ne hanno bisogno. L’elenco è lungo e testimonia un sistema di fiducia che funziona… Che dire?

7 gennaio 2017

Nota tematica senza data: "per la natura"

Il tempo non è infinito, come il WiFi che va e viene, appare e scompare. Il WiFi qui si presenta sotto la forma di un piccolo modem chiamato “saponetta” , prodotto da un gestore vietnamita che sta soppiantando la multinazionale Vodacom. Se non va si può vivere anche senza? Senza internet farsi vivi sui social diventa un lusso non garantito; ma credo che molti dei miei 12*X lettori (ci sono delle “note e noticine” che hanno superato le 300 visualizzazioni) avranno imparato ad essere un po' pazienti. 
Vado, allora, con note complessive sganciate dal calendario che si fa stringente in questo 2017 che si è presentato dinamico e stimolante.


NATURA.
Fra i miei nuovi lettori c’è un chitarrista - autore - produttore (ha partecipato anche al Festival di Sanremo, non so se rendo l’idea…) che ho incontrato quando era un ragazzino rompiballe ad un campo scuola ACR. Suonava un noioso flauto dolce e non stava mai attento alle riunioni. Dovevamo fare un cartellone sui temi che avevamo raccolto con alcune interviste alla gente del paese di montagna che ci ospitava e non ce la facevamo a lavorarci tutti insieme. Da qui l’idea che venne al brillante educatore creativo (ovviamente io!): fare un gruppo coi ragazzi più agitati e invece di un cartellone provare a scrivere e suonare una canzone. Nacque così “Per la natura”, una canzone a cui sono particolarmente affezionato. Contemporaneamente, il nostro rompiballe si rese conto di cosa vuol dire la musica e iniziò a diventare quello che è oggi (o no?).
Non avevo in mente lui mentre visitavo il Parco di Ruaha per la terza volta, ma nella mia testa risuonava “in quel momento non pensavamo che la natura è un dono…” Avevo visto il Parco sempre nella stagione secca e andarci in questo periodo in cui le piogge hanno acceso il verde è stata una meraviglia per occhi e cuore. Non cedo alla mania delle classifiche e so che la mia pelle è intessuta con la terra della pianura padana che ha ricamato in me distese di mais, filari di alberi da frutta, inverni nascosti nella nebbia di città, estati di barbabietole sotto il sole fra il presuntuoso Po e l’umile Adriatico.
Ho questo nel sangue e proprio grazie a questo posso apprezzare (in aggiunta, non in sostituzione) le rare pozze d’acqua dove sonnecchiano gli ippopotami, gli infiniti cespugli verdi sotto cui cercare il leone che riposa dopo essersi divorato una giraffa di cui rimangono solo zampe e collo per iene ed avvoltoi, le sterminate foreste con alberi rinsecchiti ed abbattuti dagli elefanti che spaccano la corteccia alla ricerca dell’acqua. Un giro fortunato che mi ha regalato emozioni inattese come la lotta fra i maschi per la supremazia nel branco di mpala, il volo di un’aquila vicinissima a noi, un bufalo appena ucciso su cui una leonessa sembrava (a non più di tre metri) preparare i “tagli” per la spartizione collettiva.
Un vero dono, nemmeno inaccessibile: l’ingresso al Parco costa come un qualsiasi parco tematico in Italia e il trasporto compreso di guida per tutta la giornata meno di uno ski-pass.
Al ritorno ne parlavamo fra di noi apprezzando che il mito del “safari” esaltato da Hemingway non fosse più un atto cruento riservato a un’élite di ricconi ma diventasse un momento di contatto con una natura ricca e diversa dal solito anche per gente media come eravamo noi (a parte me tutti giovani o studenti o precari.)
All’ingresso la tariffa è diversificata e gli stranieri pagano il doppio dei locali mentre Mage, disabile tanzaniana, è entrata praticamente gratis e durante tutto il giorno è stata coccolata dalla guida che, quando si poteva scendere, la voleva prendere in braccio lui. Come interpretare questi segnali? 

Anche nel caso della disabilità possiamo dire che la natura è un dono che noi possiamo imparare ad accogliere?

4 gennaio 2017

2 gennaio. Prima nota del 2017: fra realismo e speranza

Il 2 gennaio hanno riaperto i Centri della Nyumba Ali: nella sede di Wilolesi, quella in cui siamo noi, e in quella di Ngome molti bambini e bambine sono tornati, altri no.
Alcuni sono dai parenti, altri affrontano più giorni di viaggio per ritornare, altri bisogna recuperarli.


Quattro di loro normalmente abitano insieme alla Dada Suku nelle stanze accanto al nuovo centro di Ngome: hanno situazioni particolari per cui, di fatto, il Centro Diurno  per loro è un vero e proprio centro residenziale (in Italia si chiamano così). Si sa che per loro le vacanze, anche se di una settimana, sono potenzialmente a rischio per le condizioni della casa stessa e per il disinteresse con cui vengono ancora, purtroppo, trattati i disabili.
Peter, uno dei quattro, va recuperato a casa della nonna non troppo lontano da Ngome.
Il 2 gennaio Andrea, Paola e Chiara sono andati a prenderlo ma è stato subito chiaro che non era possibile portarlo in mezzo agli altri bambini: era evidente che stava male, poteva avere qualsiasi cosa. E’ bastata una settimana con la nonna per comprometterne la salute.
Storie come queste sono più frequenti di quello che si immagina: fortunatamente per Peter è andata a finire bene.
Il giorno dopo Andrea ha portato Peter (con la nonna…) all’ospedale del Cuamm di Tosamaganga: qui il bambino ha fatto tutti gli esami e poi è stato visitato da una pediatra italiana che ha confermato la diagnosi di denutrizione. Abbandono, incuria e poco cibo formano ancora una combinazione potenzialmente letale e a volte un’intera giornata per capire di cosa si tratta potrebbe non essere sufficiente.


Questa nota risuona forte, come un lamento nel silenzio della notte africana.
Anche qui dopo il Natale si impone la memoria dei martiri innocenti e rimbalzano le parole di Geremia “Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli”. Erode è ancora in mezzo a noi.


Il segno di speranza di oggi è proprio la foto del Centro di Ngome quando l’abbiamo visitato tutti insieme il 22 dicembre, appena arrivati. Si vedono tanti “Wazungu” (bianchi) - molti di loro sono tornati in Italia il 31 dicembre - ma soprattutto si vedono Peter e i suoi compagni accolti, nutriti ed accuditi  dalla Nyumba Ali sul cui cancello c’è scritto  “HATUA KWA HATUA TUNAWEZI KUBADILISHA DUHIA” (“Passo dopo passo possiamo cambiare il mondo”).
Sarà vero?

3 gennaio 2017

Note da vacanza nelle vacanze (27 - 31 dicembre): parte seconda - Bagamoyo

Questo che sto scrivendo è il post numero 100 del mio Blog. Rivedo l’elenco e scopro che il primo  “Hai letto "Forse è davvero così"? Lascia un commento…”  l’ho modificato come data: invece di essere nel 2006 risulta pubblicato il 9 novembre del 2008. Dall’inizio sono passati 10 anni: 100 post non è un gran numero, evidentemente fin dall’inizio avevo già sposato la prassi del “Pole Pole” (che potrebbe essere un altro modo per definire, l’ozio creativo proposto dal Prof. De Masi di cui sono un indegno seguace).
Dopo questa premessa falsamente ingenua, fatta in realtà con lo scopo che qualcuno dei miei nuovi lettori vada a vedere cosa ho pubblicato negli anni, entro nella seconda parte della vacanza di fine 2016 che ha un nome preciso: Bagamoyo (spero di riuscire a scrivere qui sotto la veranda della Nyumba Ali seduto allo stesso tavolo con Mage e Viky . Quest’ultima fa dondolare tutto mentre insieme a Bruce Springsteen rendiamo omaggio a Pete Seeger. Il tavolo di legno potrebbe crollare trascinando a terra il PC e noi che cantiamo (!?) “Pay me my money down”).

Bagamoyo per qualche tempo ha conteso a Dar il ruolo di porto più importante della Tanzania. Il giorno trascorso lì mi ha fornito diversi spunti di riflessione: ne condivido alcuni senza la pretesa di addentrarmi in analisi complesse di cui non sono capace e che non si addicono all’idea di “note e noticine”, che sono poco più che spunti, appunti o, al massimo, contrappunti.
Bagamoyo doveva il suo suo successo al mercato degli schiavi: provvedeva al primo smistamento delle persone raccolte nell’entroterra  inviandole a  Zanzibar dove si procedeva alla spedizione definitiva verso i mercati orientali ed asiatici o verso il Sudafrica. Era il fronte orientale del commercio di uomini e merci: con gli schiavi partivano avorio, oro, e minerali e tornavano seta, spezie e altro, come si vede in questa immagine presa nel museo di Bagamoyo.


Gli arabi gestivano il traffico sfruttando collaboratori locali che, con l’inganno, avvicinavano le persone: i principali acquirenti erano mediorientali, inglesi (soprattutto nelle colonie), indiani e persino cinesi.
I più pregiati erano i bambini: un bambino schiavo che arrivasse in una famiglia inglese in India o in Sudafrica avrebbe potuto garantire diverse decine di anni di “onorato servizio”. Per questo i bambini, oltre ad essere incatenati, si portavano dietro un grande pezzo di legno che ne impediva la fuga.


D’ora in poi non penserò più solo alle piantagioni di cotone del Mississippi come luogo della schiavitù antica (per quella moderna non ho che l’imbarazzo della scelta).

I Missionari cattolici francesi arrivarono a Bagamoyo attorno al 1860 e cominciarono quasi subito a comprare gli schiavi riscattandoli e restituendo loro la libertà. Per ogni schiavo libero è stato piantato un albero di palme che oggi forma un vero e proprio bosco che accoglie le persone che si avvicinano alla  chiesa.
Non ho gli strumenti per scavare in profondità: l’uomo è capace, allora come oggi, di crudeltà che è difficile persino immaginare. So per certo, però, che c’è anche tanta brava gente che non fa notizia e vedere quello che era il mercato degli schiavi trasformato in un posto dove si possono comprare (ovviamente con la solita contrattazione sul prezzo) prodotti dell’artigianato locale  mi ha un po’ rinfrancato, così come scoprire che nel 1896 qui è stata aperta una scuola multirazziale che funziona anche oggi.
Mentre mi chiedevo come potesse essere una scuola multirazziale nel 1896 (e come può esserlo 120 anni dopo, anche in Italia) ci siamo spostati a Kaole una località più a Sud dove si trovano le rovine del primo insediamento di arabi che si sono stabiliti sulle coste della Tanzania nel 13° secolo. Il posto è molto suggestivo: la nostra guida ci racconta di una trentina di persone (uomini e donne) partiti dal sud della Persia che, costeggiando l’Africa, si sono poi stabiliti proprio lì (chi fa queste cose come lo chiamiamo oggi?). Sono passati poi quasi duecento anni prima che entrassero davvero in contatto con la popolazione locale: gli orientali erano molto più evoluti, costruivano case in pietra, usavano il fuoco, avevano una religione (musulmani praticanti: le rovine della moschea sono ancora un luogo sacro e ci si entra scalzi); i tanzaniani stavano nella foresta ad un livello primitivo.

Questo mi suggerisce alcuni spunti per l’attualità:
  • non sempre chi arriva dal mare (anche se scappa da qualche altra parte) porta disgrazie, 
  • non sempre i musulmani hanno la spinta per convertire i vicini (l’islamizzazione della Tanzania non è partita da qui nel 13° secolo…) 
  • non sempre è necessario avere fretta per “integrarsi” , a volte serve una fase di studio.

Sono un inguaribile idealista: mi piace immaginare Kaole come il villaggio del “Libro della giungla” (quello vecchio della Disney): una ragazza esce a prendere acqua al fiume e incontra il selvaggio appena sceso dall’albero...

2 gennaio 2017

Note da vacanza nelle vacanze (27 - 31 dicembre): parte prima.

Tornano i ritmi normali e devo rispettare l’impegno coi miei lettori che hanno aspettato che il blog “chiuso per ferie” riaprisse. “Pole pole” (piano piano…) sono qua ed ho in testa questa frase di una canzone di Mogol cantata da Gianni Morandi “se chiudi gli occhi forse ci senti anche da lì” .
Sono sicuro che qualcuno, chiudendo gli occhi, ha già sentito qualcosa dei giorni dal 27 al 31 dicembre 2016: per questo mi sento libero di scrivere senza seguire il calendario che, di fatto, coincide con un periodo di viaggio-vacanza.


“We are on the road to nowhere”
Viaggiare qui è sempre un momento speciale: le distanze si accorciano o allungano a seconda della tipologia di strada (asfaltata o sterrata), dei limiti di velocità, dei dossi-dissuasori che appaiono a tradimento (e dissuadono davvero...), dei poliziotti che spuntano dal nulla e ti fermano quasi sistematicamente. Se aggiungi l'incognita dell'attraversamento di Dar Es Salaam il viaggio può assumere contorni talmente indefiniti da sembrare imperscrutabili.
Inoltre qui si  guida all’inglese e si sta sulla sinistra,  ma succede che, ad esempio, sui viali a due corsie che avvicinano al centro di Dar, si faccia il contrario: dato che tutti stanno sulla corsia di sorpasso, che si trova a destra, per sorpassare devi andare a sinistra esattamente come da noi.
Ai 509 chilometri della prima tappa da Iringa a Bagamoyo, si sono aggiunti i 103 km da Bagamoyo a Kipepeo Beach (durata 3 ore con attraversamento serale di Dar) e infine i 532 per ritornare a Iringa (nel traffico mattutino di Dar). Potete controllare su Google Maps: la somma dei chilometri tradotta in tempo di percorrenza previsto diventa di circa 21 ore (in condizioni normali).
Se però la polizia ti ferma  per 6 volte devi aggiungere almeno altri 60 minuti:  anche se lo fa senza motivo, il tempo se ne va nel guardare in faccia tutti i passeggeri,  verificando anche la disabilità di Mage e Viky che in alcuni casi funge (anche se non sempre) da lasciapassare. A tutto questo si sommano i rallentamenti per passare (per lavori in corso) da strade asfaltate a strade sterrate. Il risultato evidente è che un giorno intero dei cinque di viaggio se ne è andato “on the road”.
Per fortuna eravamo una bella comitiva col pullmino della Nyumba Ali: l’allegria non mancava e, soprattutto, Andrea alla guida è stato davvero incredibile riuscendo a districarsi in ogni situazione; compreso il caos della più grande città della Tanzania dove pedoni, moto, pullman, Dala Dala e Bajaji spuntano all’improvviso da tutte le parti.
Per fortuna alla fine di ogni strada abbiamo sempre trovato qualcosa che ci ha pienamente soddisfatto (contraddicendo il titolo di questo paragrafo).


Attraversare per due volte in pochi giorni Dar Es Salaam, pur nella innegabile confusione di cui ho già parlato, mi ha fatto cogliere segnali di una evidente fase di crescita testimoniata dalla vista di autobus pubblici numerati (e pieni) che girano in corsie riservate lasciate libere dagli altri mezzi (cosa che, ad esempio a Roma, non ho visto spesso), dalla grande mole di edifici in costruzione anche con stile innovativo a disegnare una linea architettonica della città proiettata verso ambizioni importanti. A quattro anni dall’ultimo mio passaggio qui, ho avuto l’impressione  che anche la grande città abbia la voglia di darsi quelle regole di convivenza che, forse, nei villaggi ancora rimangono a salvaguardare la dimensione collettiva: una dimensione che, a mio avviso, è dimostrata dalle file di persone lungo le strade che vendono gli stessi identici frutti e ortaggi uno accanto all’altro.

In più lo sviluppo della Tanzania passa anche attraverso la creazione di innumerevoli posti di lavoro veramente utili: ogni 10 - 12 chilometri sulle strade principali si trovano fissi almeno tre poliziotti pronti a fermare chiunque: guadagnano il loro stipendio con qualche “extra” (ci provano spesso a intascare le multe proponendo lo sconto senza verbale) e arricchiscono le casse dell’amministrazione pubblica  quando comminano una contravvenzione vera e propria. La foto di oggi è proprio quella di Andrea che contratta con la polizia stradale  al loro punto di verbalizzazione (sponsorizzato da una ditta di gelati, un vero e proprio “baracchino”).
Come andrà a finire? Lo saprete se avrete la pazienza di seguire queste note fino alla fine (prevista il 13 gennaio).