L'Aeroporto Internazionale Julius Nyerere di Dar Es Salaam ci
accoglie il 13 gennaio verso l'una e trenta completamente al buio. Un piccolo
incendio ad un quadro elettrico non spento in tempo (già si parla di secchi al
posto degli estintori) ha causato la paralisi di tutto lo scalo.
Per fortuna c'è la luna piena: così, pur nelle tenebre
subequatoriali, i bianchi si vedono bene.
In un attimo siamo già un gruppo di una decina di italiani, fra
cui alcuni che aspettano da tre giorni in albergo che si sblocchi il tappo di
Istanbul (tutto sommato se la sono passata bene in un quattro stelle con piscina in
riva al mare). Il nostro volo, previsto per le 4, è strapieno anche per questo.
Ad un certo punto si sparge la voce che il volo della Turkish Airline
(il nostro) partirà dal terminal 1 a più di due chilometri di distanza. Taxi al volo pagato
senza contrattare (giornata storica per i taxisti di Dar Es Salaam!) e siamo
sul posto: un punto periferico dell'aeroporto dove di solito partono i voli
interni per isole e parchi.
Ho preso il mio primo aereo nel 2011, quindi non ho idea di come
fossero organizzati gli aeroporti in anni più storici: per questo non so se
posso fare paragoni con l'esperienza che abbiamo vissuto per cinque ore (dalle
2 alle 7) nell'affollato terminal periferico di Dar.
Biglietti scritti a mano, valigie portate via in mucchi precari su
carrelli da cui cadevano nel percorso che solcava la folla. Gente da tutto il mondo assiepata negli
angusti spazi in cui arrostiva alla temperatura di 36 gradi.
L’unico momento in cui ho avuto i brividi è stato quando ho visto i nostri bagagli traballare nella discesa verso la pista: mi sono convinto che
non li avrei trovati all'arrivo a Bologna. Immaginavo la valigia blu sventrata
dall’aereo da turismo in partenza verso il Kilimangiaro: nella mia
mente i prodotti artigianali che la riempivano (da vendere nei mercatini per
sostenere la Nyumba Ali) svolazzavano spinti dalle eliche in movimento, regalando
un tono di colore al grigio asfalto della pista di Dar, irrimediabilmente
irrecuperabili.
Nel delirio dell’alba afosa anche le radiografie che mi avevano
fatto all’ospedale di Tosamaganga mi sembravano volare in aria e, illuminate
dal sole nascente, proiettavano la mia gabbia toracica come un avviso a tutta l’Africa: novella riedizione del Batsegnale che
appare su Gotham City.
Ero riuscito a stare in Africa 23 giorni senza essere mai colpito
dalla classica “diarrea del viaggiatore”
e a poche ore dalla partenza mi ritrovavo affetto da una forma basica di A.D.A. (Allucinazioni Da Aeroporto).
Invece, una volta saliti sull'aereo tutto si è messo a posto: il
ritardo è stato assorbito nel tempo dello scalo a Istanbul e la coincidenza
verso Bologna era quasi puntuale.
Alla fine siamo arrivati tutti e tutto il nostro bagaglio: Bruna e
Lucio - decisamente più in forma di me - ci hanno accolto con giacche a vento per sopportare lo sbalzo dall'estate
subtropicale all'inverno padano.
Il racconto del volo di ritorno (nella foto il nostro aereo che ci
aspetta mentre lo raggiungiamo a piedi sulla pista di Dar Es Salaam) attira la
mia attenzione su due parole: COINCIDENZE E SCALO.
Saranno l’argomento della nota finale che chiuderà il ciclo delle “Note
e noticine”. Alla prossima!
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