11 luglio 2018

Qualcosa su mio padre (3 di 3)

Finisco questa "trilogia" oggi, 11 luglio, ad un mese dal funerale di mio padre.
Quel giorno, in giacca e cravatta con le sue scarpe da tennis nere, "aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso": era davvero come se volesse confermare che la morte è un passaggio e che quel passaggio lui lo affrontava con lo stesso spirito tra il serioso e l'ironico con cui ha attraversato la sua e  la nostra vita.
Penso che fare memoria del senso che lega le nostre vite sia unire immagini, sentimenti, odori, racconti, sguardi che percorrono tempi lunghi e che non possono essere fissati solo nella parte finale.
Per questo la foto che metto oggi è Carlo da giovane, prima di partire per la guerra.


Di seguito c'è il testo che ho scritto per il funerale (letto poi da Andrea). Una precisazione: si parla di Laura Vincenzi della cui causa di beatificazione sono uno dei promotori: la mostra sulla sua vita era appena stata esposta nella Chiesa di San Giuseppe Lavoratore dove si è svolto il funerale di Carlo.

Ciao Capo, ti saluto oggi come ti ho sempre salutato negli ultimi anni.

Non ricordo perché ti chiamavamo “capo”: probabilmente era dovuto alla tua carriera sul lavoro dove, anche mettendoti a studiare da adulto, avevi raggiunto il livello del “capo operaio”, trasformato poi in quello dell’impiegato poco prima della meritata pensione.
Deve essere proprio così; facevamo ironia sul tuo essere un “capo” al lavoro, dato che in casa non c’era dubbio: l’unico vero e indiscusso capo era la Stamura.

Il 2 giugno, nove giorni fa,  eri a casa e non parlavi da quasi due settimane: speravamo che l’aria di Via Galvani 44, così piena di ricordi e di speranza, ti facesse un po’ risvegliare.
Ho provato a chiederti “come stai” e con un filo di voce hai risposto “bene”...e al solito saluto “Ciao Capo” in un esile soffio mi hai mandato il tuo “ciao”.

“Bene, ciao” sono state le tue ultime parole.

E noi siamo qui oggi per risponderti che va proprio bene così, che abbiamo avuto da te il regalo di una vita ricca e appassionante in cui le difficoltà, le crisi, le cattiverie gratuite, le malattie e persino la morte non spezzano il filo dell’amore che ci unisce.

Bene davvero, bene anche trovarci qui insieme a Laura Vincenzi:  con lei confermiamo che “nulla è per caso”... è sempre lo stesso filo che diventa un grande abbraccio di tenerezza.

Anch’io ti abbraccio come quando mi hai portato alla Spal all’ultima di campionato del 1967 e, vincendo 3 a 2 col Venezia, siamo rimasti in Serie A.

E ti chiedo di portare un abbraccio speciale da parte nostra alla Stamura, come è già successo quando sei arrivato al traguardo dei 60 km della “Ferrara - Mare” nell’aprile del 1978.

Ciao Capo, anzi: arrivederci.
Sappiamo che stai davvero bene, ricordati di noi che siamo ancora qui a tribolare fra gli alti e bassi delle nostre vite.

Patrizio, tuo figlio piccolo.

Il testo si può trovare anche qui Ciao capo


9 luglio 2018

Qualcosa su mio padre (2 di 3)

Quando ci siamo trovati di fronte alla scelta di cosa scrivere sul necrologio di Carlo (uscito sui quotidiani locali domenica 10 giugno) Bruna ed io avevamo appena ricevuto un messaggio da una amica, capace di cogliere quello che avremmo voluto dire in quel momento.
Da lì viene la frase "Corri tranquillo nei prati del cielo, incontro alla tua Stamura nella pace del Signore."

Poi c'è stata la scelta dell'annuncio vero e proprio. L'impiegato di turno propone alcune formule già pronte: le più usate sono "E' venuto a mancare" o "Piangono la scomparsa"... mancare? scomparsa? Il nostro Carlino è presente ora come sempre. Abbiamo preferito scrivere "E' morto serenamente": la morte è parte della vita (anzi, alcuni sostengono che sia l'unica realtà certa della vita), un dato naturale il cui significato appartiene alla sfera più intima di ciascuno.  

Ognuno di noi si è preparato al funerale a modo suo e, alla fine, sia io sia mia sorella abbiamo sentito il bisogno di scrivere un pensiero per nostro padre.
La mattina del l'11 giugno (il giorno del funerale) ce li siamo scambiati e abbiamo raggiunto la certezza che nessuno di noi sarebbe stato capace di leggerli a voce alta.

Ci è stato chiesto di mettere a disposizione i testi: ecco quello di Bruna (alias "Tecla") letto in chiesa da Irene ed Elena.

"Eri un bambino vivace, marinavi la scuola, facevi Tarzan tra gli ippocastani, eri un tiratore scelto di fionda: la nonna diceva che eri un birichino  che teneva allegra tutta la famiglia.
Ci ha pensato la guerra a farti diventare adulto, sei stato mandato a “rompere le reni alla Grecia”: avevi  19 anni  e non ti era nemmeno spuntata la barba.
Sei stato krieggefangen (prigioniero di guerra), parola che non hai mai dimenticato.
Sei scappato dal campo di prigionia di Monaco, hai attraversato il Brennero e, sempre a piedi, sei arrivato in Italia, il giorno dopo la fine della guerra.
Qualcuno ti aveva dato dei vestiti per nascondere la divisa da prigioniero e quei vestiti, neri, per poco non ti avevano fatto linciare; ma avevi gli occhi buoni e, sotto i vestiti neri, la divisa da prigioniero e la ferocia vendicatrice si è trasformata in doni e abbracci.

Ritrovata tutta la tua famiglia, le tue gambe non hanno voluto  più camminare e sei rimasto a letto per quattro mesi, paralizzato.
Le tue gambe hanno, poi, deciso di riprendere il proprio lavoro e da allora le ha fermate solo la Morte.

Ci sono stati la povertà del dopoguerra, il matrimonio, la paternità, i due lavori  da fotografo: lavoravi tanto e dicevi alla nonna che andavi al bar a giocare a biliardo.

Nel Natale del 1954 ti aggiravi in piazza Travaglio alla ricerca di un albero da addobbare con le candeline vere, le palle di vetro e i fili d’angelo argentati, ma i soldi non bastavano per comprare l’albero più economico del mercato.
Hai aspettato che i venditori se ne andassero, hai raccolto da terra i rami caduti e sei corso  in bicicletta a casa.
Hai preso un manico di scopa e, con un trivellino a mano, hai piantato nel bastone tutti i rami raccolti per terra.
Hai lavorato tutta la notte e la mattina hai guardato, felice, gli occhi pieni di gioia e di stupore di tua figlia di fronte all’albero più bello che avesse mai visto.

Sei stato un papà buono, capace di fare qualunque cosa per vedere gli occhi felici dei tuoi figli.
La tua Tecla, che tutti gli altri chiamano Bruna."

Il testo si può trovare anche qui Eri un bambino vivace

La foto di oggi: Carlo e Viki, nonno e nipote, 5 anni fa






8 luglio 2018

Qualcosa su mio padre (1 di 3)

Oggi, 8 luglio 2018, è passato un mese da quando è morto mio padre Carlo. 
Non voglio indugiare qui nei ricordi personali: ci tengo troppo all'intimità di questi momenti, vissuti insieme a mia sorella Bruna ed alle nostre famiglie.
Riflettendo, però, ci siamo resi conto che la memoria è diversa dai ricordi: è un patrimonio da condividere, è un semplice servizio alla dignità di ogni persona, della traccia che regala a questa umanità.
Il primo segno di consapevolezza è una rinnovata ricerca di senso che sta unendo me e Bruna, figli orfani di Carlo e Stamura, uniti in un nuovo modo di sentirci vicini che abbiamo ridefinito "sorellanza".

Dalle storie quotidiane della nostra famiglia possiamo raccogliere qualche sassolino bianco da lasciare sul sentiero: noi per primi (anche al buio, se avremo la fortuna di vedere da che parte  si accende la luna) potremo ripercorrere qualche tratto di percorso nella speranza che ci aiuti nei nuovi itinerari delle strade di ogni giorno.

Al funerale di Carlo le testimonianze dei tanti che hanno voluto esserci ci hanno confermato che la voglia di non perdere quello che ci unisce è grande.
Ci hanno chiesto di poter avere i testi che sono stati letti quel giorno.
Molti hanno sottolineato che era impossibile ricordare Carlo da solo: la sua Stamura era un tutt'uno con lui.

Oggi l'immagine è quella che abbiamo usato per il cosiddetto "santino" (esaurito il giorno del funerale) insieme alla frase scritta sul retro."Ho terminato la mia corsa"...ed è stata una lunga corsa piena di significati.



6 luglio 2018

Torno sul blog: sono ancora io?

Torno sul blog. Dopo 18 mesi torno sul blog: sento che ho bisogno di pensieri elaborati oltre la foga dell’istante.
Torno sul blog e rileggo le ultime cose che ho scritto il 31 gennaio 2017.
Trovo la frase: “la conferma che siamo meglio di come ci rappresentiamo” e mi fermo un attimo: confesso che non sono così sicuro di essere, oggi, d’accordo con me stesso.

Torno sul blog: il tempo porta sempre cambiamenti e oggi, a differenza del 2017, il viaggio verso la mia famiglia africana si può fare senza aereo rimanendo fra l’Adriatico e gli Appennini.

Torno sul blog e riparto da quest’altra frase del 31 gennaio 2017:
“Il viaggio non è mai solo quello fisico e c’è il dramma sempre dietro l’angolo: l’unica certezza con cui facciamo i conti è la nostra fragilità. Non generalizzo, parlo di me che giro con un’agenda piena di nomi e numeri e con un album di fotografie sullo smartphone: le devo mostrare per confermare la realtà delle esperienze. Le riguardo e mi soffermo a pensare quanto vorrei condividerle davvero, in profondità, partendo dai tanti che ora non regalano più il loro sorriso.”
Tanti persone hanno smesso di regalare i loro sorrisi: anche per loro torno sul blog.

Chiudo con un piccolo video (meno di 3 minuti) che mi è stato proposto una settimana fa “Alcune persone vedono erbacce, altri vedono desideri”…e io?